Nella fotografia esistono, come in tutte le cose, delle persone che sanno vedere e altre che non sanno nemmeno guardare.
(Nadar)
[ Interno Giorno ] Oggi sono a Roma per incontrare Valentina Notarberardino, responsabile comunicazione e ufficio stampa di Contrasto. Sono in una nota caffetteria capitolina. Dalla grande vetrata entrano i raggi di sole di una classica giornata primaverile. C’è un via vai di gente, c’è vita. Il cameriere passa due o tre volte almeno per chiedermi l’ordinazione. Non c’è niente da fare, arrivo sempre troppo presto agli appuntamenti di lavoro. Voglio evitare di prendere troppi caffè per cui gli chiedo gentilmente di passare dopo quando arriverà la persona che aspetto, che arriva dopo pochi minuti. Sono decisamente imbarazzato e agitato. Mi capita sempre quando sono davanti a persone che stimo umanamente e professionalmente. Ma siam lì per lavoro per cui facciamoci coraggio e …si inizia.
Ciao Valentina, benvenuta innanzitutto nella nostra “casa” temporanea per prenderci un buon caffè insieme e parlare innanzitutto del tuo lavoro e di fotografia. Ma prima di iniziare vorrei iniziare con il classico: Come stai?
Davanti ad un buon caffè, sempre bene, grazie per questo invito.
Qualche settimana fa mi trovavo a parlare con un collega che ancora propina quella triste manfrina sul possedere un tipo di macchina fotografica rispetto ad un’altra quando poi, ancora oggi, nonostante ci troviamo in un’epoca bombardata di immagini, ancora abbiamo difficoltà a guardare ciò che ci circonda, a saper riconoscere la bellezza. Secondo te, abbiamo davvero dimenticato come si guarda?
Credo che la moltiplicazione, talvolta eccessiva, degli stimoli visivi del nostro quotidiano possa essere trasformata in una opportunità se impariamo ad orientare lo sguardo. Il nostro modo di guardare oggi è contaminato dal bombardamento mediatico, sovra-stimolato dall’accumulo di foto propinate dai diversi canali di informazione e – soprattutto – dai social network. Non ritengo che questo sia un problema in sé, lo diventa solo nel momento in cui smettiamo di indirizzare criticamente il nostro occhio, se non lo orientiamo attivamente verso un’acuta e attenta osservazione di quello che le immagini ci dicono. Solo in questo modo sarà possibile educare (o, meglio, rieducare) l’occhio a vedere, invece che a un generico e passivo guardare.
Abbiamo paura di guardare, di vedere ciò che non comprendiamo,. ciò che non conosciamo, ciò che ci è ignoto. Ma alla fine è un qualcosa che fa parte di noi ed è dietro l’angolo. A proposito di Contrasto, tu vivi ogni giorno nella bellezza, nella poesia che i grandi fotografi e i grandi maestri, rappresentati e/o pubblicati da voi, riescono a regalarci. Sei la responsabile dell’ufficio stampa dell’agenzia e casa editrice. Come vivi il tuo lavoro?
Amo il mio lavoro, lo vivo con grande passione e quotidiana curiosità. Ho il privilegio, personale e professionale, di lavorare con i più grandi interpreti della fotografia internazionale. Ogni giorno mi rendo conto di quanto sia stimolante il mondo dell’immagine contemporanea e, soprattutto, di quanto sia possibile inventare ogni volta nuovi modi per promuovere la fotografia d’autore. In un momento in cui si usa (e si abusa) delle immagini come mezzo per comunicare, io mi concentro invece sul “comunicare la Fotografia” intesa però come progetto d’autore. Che si manifesti sotto forma di libro, di una mostra o di incontro pubblico, il concetto resta invariato: ogni progetto ha una sua specificità che va valorizzata in chiave di comunicazione, scegliendo di volta in volta gli interlocutori (radio, carta stampata, tv, eventi pubblici come fiere e festival) più adatti.
“Le donne fotografe si ritraggono sempre, quasi sempre. Gli uomini fotografi molto meno. È curioso. I fotografi non hanno bisogno di cercare la loro anima?” [ Concita De Gregorio ]. A tal proposito devo essere onesto. Mi capita raramente di ritrarmi o farmi ritrarre in una foto. Le uniche volte sono capitate durante le lezioni in sala posa con i miei allievi. Ed è molto curioso scoprire come si è davvero dentro. Partendo dalla frase di Concita De Gregorio, quanta ricerca di sé stessi c’è oggi in fotografia?
La frase di Concita De Gregorio che citi si riferisce alla riflessione che l’ha spinta alla ricerca per il suo libro della collana In Parole Chi sono io?. Ci sono naturalmente casi di grandi fotografi uomini che hanno realizzato degli autoritratti, ma nessuno ha mai fatto un lavoro sistematico su sé stesso così come invece è capitato a molte donne fotografe. Proprio come nel caso delle autrici che la giornalista di Repubblica intervista nel sul libro: Simona Ghizzoni, Moira Ricci, Silvia Camporesi, Guia Besana e Anna Di Prospero.
In questi lavori c’è una grandissima introspezione. Per le fotografe protagoniste del libro il lavoro sul proprio corpo è stato quasi sempre sinonimo di ricerca sul sé, una cura. Diverso è il caso dei numerosi selfie amatoriali usati per i social network, dove, come sostiene la stessa Concita De Gregorio, ci si muove nell’ambito del tentativo di costruzione della “reputazione”, non più di una profonda riflessione sulla propria individualità.
Si parla tanto ormai, soprattutto in fotografia, di storytelling. Quanto è importante oggi questo termine e soprattutto quanto pensi questo modo di raccontare abbia cambiato la fotografia?
L’idea di raccontare una storia attraverso una sequenza di immagini credo che nasca con il progetto fotografico in sé, quando c’è ed è forte naturalmente. In casa editrice riceviamo quotidianamente proposte di fotografi che vorrebbero pubblicare un libro con noi. Quello che intendo dire è che talvolta sembra però che manchi la percezione che le fotografie di un viaggio, o di un soggetto in particolare, seppur belle ed esteticamente ben composte, non necessariamente abbiano la forza dell’approfondimento, della seria documentazione e, di conseguenza, del racconto.
Questa è anche la differenza che intercorre tra un catalogo, un susseguirsi di immagini scelte senza un criterio guida, e un libro vero e proprio, con una idea di struttura che rispetti le intenzioni e le tappe del progetto fotografico. Ci sono autori che dedicano anche dieci anni allo stesso tema (Salgado con Genesi tanto per fare un esempio eminente), fin quando non arrivano a quello scatto o a quella situazione da documentare che nella loro intenzione può rappresentarne la conclusione.
In questo senso, essere in grado di presentare il proprio lavoro in modo adeguato, con la giusta sequenza narrativa, è fondamentale. In molti casi, sia per i libri che per le mostre, allo storytelling proposto dalla fotografia in sé, si aggiunge il ruolo delle didascalie e dei testi che concorrono alla efficacia della narrazione.
Qualche mese fa abbiamo avuto l’onore e la possibilità di conoscere Giulio Piscitelli, fotografo partenopeo rappresentato dall’Agenzia Contrasto, per presentare il suo libro “Harraga”, pubblicato dalla casa editrice Contrasto. Oltre ad essere un grande professionista mi ha emozionato molto conoscere le storie e la realtà che solo grazie a reporter come lui possiamo scoprire. Penso a lui, a Gabriele Micalizzi, alla fotografia che non sempre si osserva, a quella che può costare la vita, a quella che fa paura e al contempo fa emozionare. A quella che a volte fa vincere i premi. A quella che devi scattare anche se quel che vedi ti spaventa. Da addetta ai lavori, quanto è difficile secondo te, durante le presentazioni, promuovere lavori pur essendo pieni di immagini che magari provocano dolore?
Le fotografie che testimoniano la violenza politica e sociale sfruttano i soggetti e assecondano il voyerismo di chi le guarda o sono invece documenti preziosi e irrinunciabili?È una questione complessa e delicata quella a cui fai riferimento, il grande tema etico del fotogiornalismo. L’interrogativo che tutti i fotografi si pongono quando si trovano a immortalare con il loro obiettivo situazioni di dolore.
Quindi, una scelta di campo che avviene prima ancora di presentare il proprio lavoro, prima che diventi un libro o una mostra, prima di avere un ufficio stampa che lo promuova e un pubblico a cui raccontarlo. Dal mio punto di vista, cerco di rispettare sempre le scelte dell’autore magari, quando necessario, consigliandolo, se penso che sia il caso di evitare alcuni contenuti in un determinato contesto, ma la scelta è sua.
Rispetto i progetti, rispetto e stimo profondamente gli autori e le loro scelte. Il mio compito è solo quello di valorizzare e diffondere al massimo i loro lavori, che possono partire da impostazioni, esperienze, scelte contenutistiche e stilistiche tra le più disparate.
Ritorniamo all’essere donna in fotografia. Annie Leibovitz, Diane Arbus, Vivian Maier tra le tante. Una parola ciascuna per descriverle.
Descrivere in una sola parola queste tre fotografe dalla produzione e dalle personalità così articolate e diversificate temo sia riduttivo. Così, se me lo permetti, posso dirti cosa mi evocano i loro nomi quando me le citi.
Dici Annie Leibovitz e subito mi viene in mente il suo celebre ritratto di John Lennon insieme a Yoko Ono, l’ultima immagine del cantante realizzata poche ore prima che venisse assassinato.
Mi nomini Diane Arbus e vedo le due gemelle identiche che (mi) guardano nell’obiettivo nella sua foto iconica del 1967. Concludi con Vivian Maier e mi scorre davanti uno dei suoi tanti caratteristici autoritratti con la Rolleiflex al collo.
La meraviglia della primavera. Sarà passata almeno un’ora, è quasi ora di pranzo e fuori il sole continua a splendere e a riscaldare. Roma è magica. Così come tutte le città dotate di un’anima magica e al contempo selvaggia e indomabile.
Alla fine ho optato per un thé ai frutti rossi invece del caffè. Decisamente più indicato per rilassarmi e placare quell’ansia che alla fine si è rintanata nel mio inconscio.
Ho ancora una domanda da fare a Valentina. Quella classica che ci sta sempre bene, o no? Va beh, ora le faccio.
In chiusura ti volevo chiedere di parlarci delle ultime produzioni in casa Contrasto.
Stiamo lavorando, come sempre, su diverse collane. Nei prossimi mesi pubblicheremo un graphic novel dedicato a Gerda Taro, proseguendo il percorso iniziato con i fumetti che raccontano i momenti cruciali delle vite di Henri Cartier-Bresson e di Robert Capa.
Come Fondazione Forma, presenteremo a Milano, Forma Meravigli (dal 7 maggio 2019) la mostra L’aria del tempo di Massimo Sestini, un progetto che nasce dal libro omonimo: venticinque anni di fotografie che raccontano l’Italia da una prospettiva del tutto inedita, dall’alto. Poi posso anticiparti che sono in uscita due nuove libri della collana In Parole.
Uno è di Edoardo Boncinelli, VEDERE IL MONDO. Cinque lezioni su scienza e fotografia. L’altro per ora è ancora un segreto, ma lo scoprirete al Salone del Libro di Torino dove saremo presenti come ogni anno con il nostro stand editoriale.
Prima di congedarci volevo ringraziarti per la tua cortese gentilezza.
Usciamo dalla caffetteria. Fuori c’è ancora il sole. Fa caldo ed io ho sempre quel cappotto. Ci salutiamo e ritorniamo ai nostri impegni. Io ho il treno tra un’ora. Giusto il tempo di gustarmi ancora la poesia della capitale e ritornare a casa e al mio lavoro.
Buona Giornata.